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Caprarola e l' emozione delle stanze farnesiane

di Daniela Proietti

Viterbo, 14 novembre 2020

L’aria fredda ci ha avvolti, e la mia sciarpa pesante non è bastata a ripararmi da un brutta nevralgia che ha rappresentato la mia scomoda e non desiderata compagna per parecchi giorni. E pensare che l’ultima visita a Palazzo Farnese, la feci durante una giornata torrida di moltissimi anni fa.

Non ero ancora maggiorenne, anche se l’addetto alla biglietteria, alla mia richiesta di usufruire della gratuità, storse il naso e mi chiese un documento.

Era il 1989, mese di luglio, e ci eravamo riuniti per  festeggiare un ottimo evento che aveva toccato un membro della famiglia.

Andammo a pranzo in una trattoria che, al tempo, era molto frequentata. Non ne ricordo i particolari. Mi pare che si accedesse a questo locale dagli arredi piuttosto spartani da una piazzetta. I tavoli erano alloggiati su di una veranda, da cui si scopriva un bel panorama. Si mangiava tantissimo, fino allo sfinimento.

Dopo aver consumato un pasto luculliano, ce ne andammo a fare un giro per Caprarola, ed arrivammo alla sua sommità, laddove sorge il maestoso palazzo rinascimentale, simbolo di quella famiglia che tanto ha arricchito il territorio di Tuscia.

Come ho già detto, sono tornata nel comune dei Cimini nel tardo pomeriggio di una domenica novembrina. Il sole iniziava a scendere dietro alle cime che lo attorniano e, sebbene consapevoli che non saremmo riusciti a godere ampiamente delle magiche sensazioni che soltanto un borgo antico, che fonda le sue radici addirittura in epoca etrusca, può donare, non abbiamo lesinato una visita.

Contrariamente alle nostre abitudini, siamo giunti  provenendo da est e non dal lato settentrionale. Poco dopo, abbiamo superato  un alto ponte che sovrasta una gola scoscesa.

Avanzando sulla strada, ci siamo ritrovati di fronte alla bella immagine del borgo che affonda le proprie radici su una rupe tufacea. Immortalarlo con la fotocamera, gli occhi e il cuore, è stato un attimo.

Le prime notizie dell’abitato risalgono all’anno 1000, quando alcune genti si insediarono stabilmente in quella terra e nei pressi dell’odierna Ronciglione, luoghi, ambedue, immersi nella complicata e impervia Selva Cimina.

Nel periodo medioevale, Caprarola fu oggetto di contesa tra alcune famiglie feudatarie. Sul finire del XIII secolo era sotto il potere degli Orsini, successivamente furono i Prefetti di Vico a controllarla. Intorno al 1370 la lotta per il potere fu con i Conti di Anguillara, fino a che, nel 1435, passò sotto la giurisdizione della Santa Sede.

Un lustro dopo il feudo fu acquistato dal conte Everso di Anguillara, la cui famiglia vi rimase per venticinque anni e, così, nel 1465 il Papa Paolo III Farnese sequestrò ogni bene che apparteneva loro. Fu sotto i Riario - Della Rovere che il paese si sviluppò numericamente e divenne prospero. In quel periodo Caprarola conobbe il suo massimo splendore, per merito della Famiglia Farnese che, grazie alla nomina al soglio di Pietro di Papa Paolo III, fino ad allora Cardinale Alessandro Farnese, e alla costituzione del Ducato di Castro, fece edificare nei territori della Tuscia splendidi palazzi e castelli.

E questo borgo ebbe, ed ha ancora, l’onore e il pregio di ospitare il più fastoso di essi.

La lunga via che si conclude con l’edificio in questione, che porta il nome di Filippo Nicolai, caprolatto morto durante i combattimenti avvenuti in occasione della battaglia svoltasi vicino alla cittadina russa di Petrowka, vede sul lato sinistro il Palazzo Comunale e il Sacrario dei Caduti.

La strada taglia a metà l’antico borgo medievale, squarciato affinché questa via spettacolare potesse sorgere. Essa, in maniera del tutto originale, sale dalla collina sovrastando dei burroni, una parte dei quali è stata riempita, mentre l’altra fu superata per mezzo di due alti ponti che, dall’altro lato del paese, donano un’immagine fuori dal comune.

La funzione di questa strada fu quella di fornire di un ingresso fastoso quella residenza che fu, ed è, uno splendido esempio di architettura rinascimentale. Per realizzare questo magnifica strada, chiamata la Via Dritta, vennero abbattute abitazioni, chiese e manieri.

I nobili non videro con favore la soluzione pensata quindi, il Cardinale Alessandro Farnese, diede la propria autorizzazione affinché venissero costruiti palazzi ancora oggi visibili: il Palazzo Sebastiani, Mariani, Restituiti, Moscheni; la Chiesa di San Marco e l’Ospedale di San Giovanni.

Quest’ultimo venne costruito fra il 1495 e il 1497, soltanto due anni dopo la creazione a cardinale del nobile Farnese. Sembrerebbe che il nosocomio sia stato eretto dalla Confraternita della Croce e della Disciplina, che si era costituita nel borgo prima del 1223, grazie al contributo proveniente dalla famiglia Riario. In quel luogo sorgeva una chiesetta dedicata a San Giovanni Evangelista, motivo per cui l’ospedale fu intitolato allo stesso santo.

La struttura originale, prevedeva due piani, uno per gli uomini e uno per le donne.

Durante il piano di ristrutturazione urbana del Vignola, e i lavori di realizzazione di Palazzo Farnese, anche l’Ospedale subì delle trasformazioni, di cui è testimonianza un pagamento di circa 1000 scudi avvenuto nel 1572, a favore del capomastro Scarpapede. Lo scopo che l’ospedale si prefiggeva era l’assistenza agli infermi, la gestione di un Monte di Pietà e di un asilo infantile.

Poco più di vent’anni fa, cambiò destinazione d’uso e divenne casa di riposo per anziani. Al suo interno si conservano, comunque, alcuni dipinti murali tra cui, all’ingresso, la Sacra Famiglia e San Giovanni Battista, mentre, nel salone, due preziosi affreschi realizzati alla fine del ‘500, una Crocifissione e una Pietà, simile a quella dipinta da Federico Zuccari in una cappella di Palazzo Farnese.

Con la macchina siamo arrivati nella via che costeggia il lato ovest della proprietà farnesiana, di fronte alle scuderie di palazzo, una parte delle quali, ora, è adibita a sala per rappresentazioni teatrali.

Un paio di anni fa, nonostante la mia quasi totale avversione al teatro, assistemmo a uno spettacolo inscenato da una compagnia del posto: divertentissimo, soprattutto perché recitato nel dialetto autoctono, quel modo di parlare che dà l’impressione che chi lo usa, stia quasi cantando.

Era sera, e il freddo era pungente. L’accogliente interno delle ex scuderie, al contrario, dava una buona sensazione di calore. La serata è passata velocemente, come sempre accade quando si sta bene.

Lo stabile, probabilmente completato nel 1578 e dalle enormi dimensioni, lungo circa cento metri e alto venti, era destinato ricovero dei cavalli, fienili e carrozze. In esso erano compresi anche gli alloggi per gli addetti alla cura dei 120 cavalli di proprietà della famiglia.

Quando, nel 1649 per mano di Papa Innocenzo X cadde il Ducato di Castro, il palazzo rimase proprietà della famiglia, mentre le Scuderie e il Cantinone passarono alla Camera Apostolica assieme a tutti gli altri beni del ducato. Nel 1870, con l’annessione dei territori al Regno d’Italia, divenne proprietà dello Stato Italiano. Nella metà dello scorso secolo, l’edificio fu utilizzato come sede di colonie estive, in virtù della posizione e dell’altitudine che favoriva un clima ottimale durante la stagione più calda.

E nella prima domenica novembrina di questo antipatico anno 2020, abbiamo disceso la strada per raggiungere il cortile antistante la Villa Farnesiana.

Di lì, si gode una magnifica vista sul borgo e sulle terre che si estendono attorno ad esso. La terrazza, sulla quale non ho resistito a farmi scattare, come è mia abitudine, alcune foto per immortalare uno dei tanti  momenti positivi della mia vita, è un occhio sulle bellezze che ci appartengono.

Ho guardato il palazzo, ho esitato. Non sapevo se varcare o no l’ingresso. Era quasi il tramonto, e non avrei avuto molto tempo per visitarlo. Poi, ho pensato al periodo che ci aspettava. Dopo un’estate relativamente tranquilla, i contagi hanno ricominciato a salire e, nell’aria, si respirava già l’alito di restrizioni non troppo lontane. Quindi, melius abundare quam deficere, abbiamo salito in fretta la scala esterna e mi sono tuffata nella stupenda residenza copiosamente decorata con affreschi che narrano la storia di un mondo che non ci appartiene più. E che smetterà definitivamente di essere nostro quando gli ultimi rappresentanti delle nuove generazioni,  non proveranno più interesse per le arti che ci hanno reso il paese più ricco del mondo.

Il palazzo fu costruito seguendo una forma pentagonale con un cortile al centro, pendente nella parte interna verso una “bocca della verità” in grado di raccogliere acqua piovana destinata agli usi domestici. 

In origine il palazzo, nato come residenza fortificata, era attorniato da un fossato che ne garantiva la sicurezza. Il progetto venne affidato dal Cardinale Alessandro ad Antonio da Sangallo il Giovane. I lavori iniziarono nel 1530 per interrompersi nel 1546 a causa della morte dell’architetto. L’anno successivo i lavori vennero affidati a Jacopo Barozzi detto il Vignola che, una volta venuto meno lo scopo difensivo, modificò totalmente il progetto originale, seppur mantenendo la pianta pentagonale, trasformandolo in un imponente palazzo in stile rinascimentale che, una volta ultimato, divenne residenza estiva della famiglia e della sua corte.

E’ difficile narrare nello spazio di un articolo i tesori appartenenti alla preziosa struttura, quindi, posso soltanto limitarmi a raccontare le emozioni che ho provato nel momento in cui mi sono immersa nei corridoi per fare ingresso nelle sale, approdando poi nel cortile, e salendo la magnifica scala elicoidale che tanto ricorda, anche se con un fascino molto più spiccato,  quella presente all’interno dei palazzi che ospitano i Musei Vaticani in Roma.

Ogni parete ha una storia da raccontare, dei personaggi da illustrare e delle situazioni da descrivere. Più volte è rappresentato il volto del papa che volle il palazzo, e i riferimenti al mondo classico non mancano. Una delle immagini più significative è quella in cui il Paolo III, con candela in mano, scomunica il Re d’Inghilterra Enrico VIII. Un sentiero fiorito, ovviamente affrescato sulle pareti e sul soffitto di uno dei corridoi, ha avuto il potere di immergermi e di farmi camminare con la stessa leggerezza che avrei mantenuto se fossi stata in uno di quei magnifici spazi verdi riservati alle gentil donne del Rinascimento, o alla stessa Giulia, sorella di Papa Farnese.

Una delle sale più affascinanti, è quella riservata alla carte geografiche. Spesso mi soffermo a pensare a quanto dovessero essere dotati i cartografi del tempo, che riuscivano a disegnare i contorni delle terre senza vederle dall’alto ma soltanto vedendone il profilarsi dal mare. Uno dei più grandi affreschi è quello che rappresenta il planisfero, ovviamente dell’epoca, e mancante del continente oceanico, non ancora scoperto. La carta delle americhe, poi… esplorate da soltanto da ottanta anni, eppure così simili a come le conosciamo noi.

I miei occhi sono volati più volte verso i soffitti decorati ad arte, oppure ricoperti da cassettoni nei legni più pregiati.

Il lato sud-ovest ospita la Loggia di Ercole e la fontana, lavorata con dovizia certosina. L’ampia vetrata scopre il borgo sottostante.

L’emozione cresceva ad ogni passo, ad ogni sguardo, ad ogni respiro, fin quando ci siamo ritrovati al termine del nostro viaggio all’interno del palazzo e ci siamo immessi nel cortile retrostante: un giardino all’italiana dalle dimensioni non troppo spiccate con un ninfeo situato al lato opposto del palazzo.

Siamo entrati nella grotta, era buio, anche a causa dell’avvicinarsi della notte, e abbiamo scorto una vasca piena di pesci rossi.

Ho immaginato le dame, sedute e avvolte nei loro eleganti abiti, nell’atto di rigenerarsi dalla calura estiva. Chissà quali fossero le loro chiacchiere, e i loro pensieri.

Siamo usciti, e ci siamo di nuovo diretti verso l’abitato. Siamo discesi verso il Borgo Vecchio risalente al XII secolo, il cui centro era rappresentato da Piazza Sicilia, tra salite e discese, chiese e fontane. Le luci calde dei lampioni illuminavano le abitazioni e le tipiche trattorie presenti. La Fontana delle Tre Cannelle, realizzata per volere della famiglia della Rovere, ha attirato la nostra curiosità. Nella parte sottostante ad essa è raffigurato un albero di rovere con due capre salienti, antico stemma di Caprarola.

In passato il centro abitato era ben sviluppato e ad esso, protetto tra la rocca e il borgo fortificato, si accedeva soltanto tramite due porte, Porta Castello e Porta Romana. Diviso in contrade, si caratterizza per la presenza di alcune grotte utilizzate, in un passato molto lontano, come abitazioni rupestri.

Abbiamo risalito e viuzze del centro, per ritrovarci, felicemente, e una volta ancora, di fronte all’imponente simbolo del paese cimino.

Un bar con una terrazza sulla gola che taglia in due Caprarola, noto per l’ottima cioccolata calda, ci ha avuto come ospiti. Ne abbiamo sorseggiato la dolcezza e la corposità. Mi è sembrata una delle migliori che io abbia mai gustato. Forse, anche la vista sullo splendore farnesiano ha fatto la sua parte.

 

SORIANO NEL CIMINO, UN BALCONE TRA I MONTI

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SORIANO NEL CIMINO E IL POSTO PIU' VICINO AL PARADISO

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CANEPINA, UN PICCOLO BORGO E UNA GRANDE STORIA

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SAN MARTINO AL CIMINO: LA GRANDE BARCA IN MEZZO AL VERDE

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VALLERANO: UN AMORE DI STORIA E DI SAPORI

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UN BORGO DIMENTICATO: CHIA

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VIGNANELLO, IL CASTELLO E IL BORGO

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CARBOGNANO E IL LAGO DI VICO

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Commenti

15/11/2020
11:21:51
Grazie.. (inviato da Edoardo)
Leggere queste bellissime parole su Caprarola rafforza il mio pensiero di persona fortunata nel viverlo....Caprarola più il bellissimo lago di Vico rendono questa parte della Tuscia meta stupenda....-----------------------Ha ragione Edoardo...
15/11/2020
09:35:09
GRAZIE DANIELA (inviato da Claudio)
Con un racconto minuzioso e ricco di notizie si deve andare a visitare Caprarola...grazie Daniela Proietti ....continua,ad illuminarci in queste domeniche non proprio belle-------------------------------------------------- Grazie a te Claudio
15/11/2020
08:40:25
Caprarola e l'emozione delle stanze Farnesina di Daniela Proietti (inviato da Enrico Aquilani )
La frenesia della vita attuale e la mia abitudine a non soffermarmi un attimo nel leggere i contenuti di queste pubblicazioni, mi ha privato di grandi pillole di cultura. Daniela Proietti con il suo racconto mi ha fatto vivere l'atmosfera di questa meravigliosa realtà che abbiamo nel viterbese. Grazie ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Grazie Enrico... è davvero molto gratificante leggere pensieri come il tuo Daniela Proietti

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