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San Martino al Cimino: la grande nave in mezzo al verde

di Daniela Proietti

Viterbo, 11 ottobre 2020

 

Settembre, ha un sapore speciale. Termina la stagione della gioia, del riposo, delle esperienze di viaggio e si ritorna alla vita di tutti i giorni.

Quando si è molto giovani queste sensazioni non vengono apprezzate: la normalità intristisce, placa gli stimoli e l’adrenalina. E’ crescendo che si inizia a desiderare la quiete e, a San Martino al Cimino, di certo, non manca.

Siamo arrivati nella frazione viterbese adagiata sul fianco nord ovest dei Monti Cimini, cui deve parte del proprio nome, al mattino molto presto, avendo cura di scegliere un abbigliamento che potesse mantenere il dolce tepore di fine estate.

In passato, e probabilmente anche oggi, il paesino era meta di numerosi visitatori romani che andavano ad aggiungersi ai quasi quattromila abitanti, eleggendolo luogo ideale per le proprie vacanze, lontano dal caos e dalle temperature torride di una città d’asfalto.

La strada per raggiungere il paese era rinomata per le numerose curve che rallentavano i veicoli che la percorrevano. Dopo l’apertura dell’ospedale di Belcolle e la costruzione di un tratto stradale rettilineo, la situazione è un poco migliorata, sebbene l’ultima parte sia ancora disagevole da percorrere.

Partendo da Viterbo, per giungere a San Martino, è necessario un brevissimo viaggio di 5 km. Da Porta Romana, dopo aver fiancheggiato il complesso universitario di Santa Maria in Gradi, fino ai primi anni’90 sede delle carceri viterbesi, ci si immette nell’ombrosa via Santa Maria della Grotticella. I tanti alberi, dalle chiome nutrite, chiudono la visuale fino al fontanile omonimo.

Ricordo che quando ero una bambina molti miei concittadini, me compresa, si mettevano in fila tanica in mano anzi, ghirba (come la chiamavano tutti allora), per attingere alla fontana che elargiva una freschissima e pura acqua.

Dopo un paio di curve un dissetatoio, un locale di quelli che non esistono più, offriva ristoro a quanti si trovassero a passare per la via Sanmartinese. Ricordo che alla fine degli anni ’70 era possibile fermarsi per la cena; sotto una rigogliosa pergola, proprio a margine della strada, erano alloggiati dei tavoli. Bastava ordinare da bere e si poteva consumare il cibo portato da casa o l’affettato fresco e genuino, accompagnato dal pane di San Martino, acquistato nella bottega all’interno.

Man mano che si avanza verso il piccolo centro dei Monti Cimini, la strada si eleva sempre di più, scoprendo gran parte della zona nord ovest della provincia e il mare. La grande distesa è interrotta ora dai paesi, ora dalle altre opere dell’uomo, indecorose dal punto di vista estetico, ma necessarie per mantenere le comodità su cui ci siamo adagiati: le pale eoliche e la ciminiera della tanto discussa e camaleontica Centrale di Montalto.

San Martino si apre ai visitatori tramite una porta sulla quale è incisa un’iscrizione che ricorda Papa Innocenzo X, al secolo Giovanni Battista Pamphilj, cognato di quella Donna Olimpia Maidalchini, che ha lasciato la propria firma, e non solo, nel paese e che sedette nel soglio di Pietro dal 1644 al 1655.

Piazza Mariano Buratti è un salottino, al cui centro spicca una fontana in peperino dalle dimensioni contenute. Tutt’intorno, separati da una fila di esili alberi, le abitazioni, i bar ed alcuni negozi, tra cui il Panificio Turchetti, in cui abbiamo acquistato una gustosissima pizza che non abbiamo mancato di consumare successivamente, seduti sugli scalini al caldo sole della mattinata che avanzava.

L’asfalto non incorrotto di via Andrea Doria, una lunga salita che termina sull’alto piano dell’Abbazia Cistercense, è occupato a destra e a sinistra da veicoli che involgariscono il tragitto. Finalmente siamo giunti sul sagrato dell’edificio religioso e, prima di sincerarci, dato l’orario, che fosse possibile entrare, abbiamo sfamato lo sguardo grazie alla magnificenza del panorama.

Abbiamo ripercorso il profilo della Tuscia, anzi, abbiamo sorvolato con la vista la Maremma, dal ceruleo del Tirreno al verde delle campagne di Canino, Tuscania e Piansano. Abbiamo osservato le curve del terreno, che si inerpica sul Colle Falisco. E mentre eravamo avvolti dal silenzio del giorno ancora giovane, dei rumori ci hanno distratti. 

La porta dell’Abbazia si stava aprendo, per merito di don Bonaventura, da quarantasei parroco del paese: un personaggio davvero pimpante e simpatico che, tra una battuta e l’altra, ci ha raccontato con amore di San Martino, della sua storia e dei progetti che sta realizzando. Un colloquio piacevole, all’ombra di quella meravigliosa opera, in piedi, mi si passino i termini, dalla notte dei tempi.

“Questa chiesa, fatta di pietre e calce, come ci racconta il parroco con la sua verve, è stata eretta su di un cenobio benedettino risalente alla prima metà del IX secolo. Nel 1146, arrivarono i monaci cistercensi francesi (da cui il nome) che portarono lo stile gotico, il quale, qui a San Martino, trovò la sua armonia con il romanico, dando vita al vero stile gotico italiano, importato e rielaborato.” Sfortunatamente, dell’intero monastero non rimane molto, sebbene la chiesa sia intatta.

Alzando gli occhi verso la parte superiore della facciata in peperino, è evidente il finestrone ornato e le torri gemelle laterali, in stile gotico cistercense, innalzate nel 1600 per fortificarla.

Prima di accedere all’interno del luogo sacro, don Bonaventura, con l’indiscussa ironia che dopo soltanto cinque minuti di conoscenza abbiamo percepito, ha sottolineato che San Martino non è un posto da scegliere come dimora, a meno che non si voglia vivere vent’anni in più.  Tanto che era considerato un luogo estremamente sano data la sua collocazione a 561 metri s.l.m., tra il Lago di Vico, di origine vulcanica, e la montagna, che regalano alla zona correnti d’aria particolarmente pure.

L’interno dell’abbazia è suddiviso in tre navate delineate da archi slanciati, appoggiati su poderose colonne che fungono da divisorio. Le pareti sono pressoché disadorne, eccezion fatta per “Lo stendardo giubilare”, opera dell’esponente del barocco Mattia Preti, quasi a non voler distrarre i fedeli raccolti in preghiera.

Il capolavoro fu commissionato all’artista calabrese, intorno alla metà del XVII secolo, da Donna Olimpia Maidalchini, il cui sepolcro viene conservato proprio all’interno dell’edificio stesso, assieme a quello del principe Girolamo Pamphilj.

“Chi dice donna, dice danno”, osserva con un sorriso la nostra illustre guida, smentendo immediatamente che il concetto possa estendersi a tutti gli esseri umani di sesso femminile. Ma quell’Olimpia Maidalchini Pamphilj, benché si dica che qualche guaio lo abbia combinato, è riuscita a donare un’anima e un’impronta inconfondibile al piccolo agglomerato di case, abitato da cacciatori e boscaioli.

La donna in questione, di progenie viterbese e dotata di un’intelligenza brillante e di una scaltrezza fuori dal comune, accusando il proprio padre spirituale di volerla sedurre, riuscì ad evitare il convento, luogo a cui i suoi genitori pensavano di destinarla assieme alle sorelle. Convolò a nozze con Paolo Nini, un uomo molto facoltoso ma senza alcun titolo nobiliare. Anch’essa non aveva nobili discendenze ma, essendo molto ambiziosa, successivamente, si unì in matrimonio ad un esponente anziano e non facoltoso della nobiltà romana, Pamphilio Pamphilj. Non ne guadagnò in ricchezza, ma la sua posizione sociale assunse, come è ovvio, un certo rilievo.

Olimpia era una donna molto influente, e la sua autorevolezza crebbe ancor di più nel momento in cui il cognato divenne, grazie al potere economico della stessa, Papa Innocenzo X. Un’alchimia strana quella tra i due, tanto che il pontefice accedeva spesso alla dimora della cognata, addirittura all’interno della propria biga.

Dicerie a parte, la nobile donò al paesino un imponente palazzo, edificato sulla preesistente abbazia, e un borgo progettato sull’esempio di Piazza Navona, nella quale Innocenzo X fece costruire la Chiesa di Sant’Agnese in Agone e la Fontana dei Quattro Fiumi, realizzata per mano di Gian Lorenzo Bernini.

Donna Olimpia fece anche in modo che il paese si popolasse, chiamando giovani coppie ad abitarlo e donando loro le pittoresche abitazioni appoggiate l’una all’altra e che seguono la naturale curvatura del fianco del monte. A chi si trasferiva in questa grande nave in mezzo al verde, veniva anche offerto un lavoro e, quindi, la possibilità di vivere dignitosamente. Alle ragazze che sceglievano di restare nel borgo era elargita una dote. Vivere lì era come stare in un luogo protetto, dato che Olimpia, divenuta Principessa di San Martino, aveva fatto in modo che servizi e divertimenti lo rendessero tale.

Al termine di questo lungo ed esaustivo racconto, Don Bonaventura ci ha illustrato il suo progetto, e lo ha fatto con il giusto orgoglio: un piccolo museo, già in funzione, che raccoglie testi relativi alle letterature di vari paesi europei e dischi in vinile correlati ai testi stessi (per informazioni, Don Bonaventura Pulcini-parroco 3452922344, Don Fabrizio Pacelli-vicario parrocchiale 3488554984 ).

“San Martino è un paese da gustare con calma, assaporando le sue atmosfere e, perché no, gli strozzapreti e le ottime fettuccine ai funghi cucinate nei caratteristici locali all’interno del borgo”. San Martino è difatti celebre per i prodotti del bosco, come i funghi e le castagne. Il frutto è anche protagonista di un’importante sagra che si svolge all’inizio dell’autunno. Ascoltando i consigli del parroco, ci siamo congedati da lui, ringraziandolo per il suo tempo e abbiamo proseguito la nostra visita.

Ci siamo spostati sulla piazza posta alla sinistra dell’Abbazia, un capolavoro architettonico, racchiusa com’è tra le antiche mura del complesso religioso; abbiamo superato la porta che immette su Via Borgovecchio e siamo discesi di nuovo verso il paese.

Abbiamo scelto di non proseguire verso il bellissimo Lago di Vico, incastonato tra le rotondità dei Monti Cimini, e ci siamo ripromessi di andarlo a visitare presto, assieme ai numerosissimi paesini della zona montana della Tuscia.

Ci siamo gustati, riscaldati dai delicati raggi del sole settembrino, tutti i vicoli ed i balconi adornati di fiori e ci siamo stupiti di fronte alla cura adoperata per omaggiare una statuina della Madonna. Ci siamo confusi tra il profumo del bucato steso nelle viuzze e abbiamo lasciato che il nostro sguardo si rallegrasse nel compiere brevi salti sui celebri tetti delle case a schiera sanmartinesi.

Siamo scesi verso la nostra città passando per una via alternativa, che incrocia il passo con la vecchia stazione ferroviaria, inaugurata oltre un secolo fa. Quel luogo ha un sapore antico, incorrotto.

Abbiamo lasciato la grande barca immersa nel verde dopo aver navigato tra secoli di storia e bellezze artistiche, avvolti da una natura che non smette mai di regalarci emozioni.

SORIANO NEL CIMINO, UN BALCONE TRA I MONTI

(LINK DI SEGUITO) http://www.viterbox.it/rubriche/borghi_7/soriano-nel-cimino-un-balcone-tra-i-monti_5778.htm

SORIANO NEL CIMINO E IL POSTO PIU' VICINO AL PARADISO

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CANEPINA, UN PICCOLO BORGO E UNA GRANDE STORIA

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http://www.viterbox.it/rubriche/borghi_7/canepina-il-piccolo-mondo-ai-piedi-dei-cimini_5894.htm?fbclid=IwAR2N9Of8hQAg0FZruLEXp7ZI0wgETsTXpcVVZBQLlM8pmc5WqGvT_KxU-BY

 

 

 

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