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Fatta l'Italia ora mancano gli Italiani

"Abbiamo fatto l'Italia ora dobbiamo fare gli Italiani".

"Bisognerebbe prima fare i Viterbesi".

Due frasi divise da un secolo ma che la dicono lunga sul senso di unione che si respira e si respirava nell'aria.

Ma mentre la prima è di un certo Massimo D'Azeglio,
"pittore, scrittore, soldato, amante della patria, uomo di Stato, ministro e galantuomo", così fu descritto dal Bersezio,
la seconda più umilmente è stata proferita dal nostro attuale sindaco.

Nessuna voglia di fare confronti, non è questo il luogo, ma solo il voler rimarcare quanto queste frasi raccontino fondamentalmente una realtà.

Non esiste un popolo se non c'è unione, non esiste una comunità se all'interno di essa non si perseguono gli stessi obiettivi e gli stessi intenti.
Solo una comunità compatta, un popolo unito, possono far sentire la propria voce, possono essere realmente i protagonisti nelle decisioni che riguardano il futuro della comunità stessa.

Parliamo della nostra piccola realtà, Viterbo.
Secondo me, è proprio questo che manca: il senso della comunità.
Siamo troppo presi e preoccupati dei problemi personali per vedere quelli comuni.
L'interesse del singolo prevale sempre su quello dell'intera comunità.

L'esticazzi è uno stile di vita, non solo un modo di dire.
Se l'intrallazzo, il voto di scambio, il favore politico, ci portano un vantaggio, bene, a fanculo il resto.

Fanculo se siamo guidati sempre dalla stessa politica, anche se ogni tanto si cambia vestito per confonderci le idee, fanculo se a decidere le sorti di una città sono sempre i soliti faccendieri, le solite famiglie, i soliti imprenditori, i soliti ad aggiudicarsi appalti e lavori, i soliti a ricevere favori e vantaggi nell'appoggiare politicanti che non hanno neanche lontanamente la percezione della parola Stato.

Fino a quando l'interesse del cittadino sarà rivolto al "suo" giardinetto, fino a quando si preoccuperà solo dei sacchetti non raccolti davanti al "suo" portone, delle buche nel "suo" marciapiede, delle voragini della "sua" strada, della puzza di vomito e urina del "suo" quartiere, dei servizi mancanti nella "sua" frazione...fino a quando esisterà il "suo", il "mio", il "tuo", non andremo da nessuna parte.

"Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi".
Le parole del nostro inno, anche se riguardavano un'Italia ancora di là dal venire, possono benissimo essere prese ad esempio.

Non esiste la volontà di combattere uniti per tornare a decidere del proprio futuro. C'è sempre dietro un interesse che lo impedisce.
Lo vediamo anche nelle piccole cose, lo vediamo nel sembrare tutti di un sentimento, frase che risuona spesso nell'unico giorno di una Viterbo compatta, ma poi il fuggi fuggi generale lascia isolati pochi soggetti che ancora credono nella comunità, sempre quelli, sempre gli stessi, indomiti portavoce di un popolo che sa abbaiare solo da lontano, portavoce di un dissenso che in fondo sembra solo nelle loro menti.

Non meravigliamoci, poi, se gente con poco intelletto ci conta e dal nostro numero stabilisce il gradimento di una amministrazione, non meravigliamoci se poi veniamo costantemente presi per il culo perché sappiamo solo protestare comodamente seduti in poltrona, con le pantofole ai piedi e il gatto che ronfa sulle ginocchia.

Quello che succede a Viterbo in questi giorni, in questi mesi, che è successo in questi anni, non è colpa di nessuno se non la nostra.
Colpa della nostra apatia e del nostro menefreghismo, colpa dei nostri interessi personali nascosti, colpa della nostra vigliaccheria.

Quindi, non meravigliamoci di come è ridotta questa povera città, non cerchiamo le colpe in politicanti attenti solo ai propri privilegi, non troviamo scusanti accusando altri.
I colpevoli possiamo trovarli facilmente, basta uno specchio.

Ogni popolo ha il governo che si merita e noi ce lo meritiamo tutto.

Giancarlo Paglia 

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