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L'aria antica di Vignanello

di Daniela Proietti

Viterbo, 01 novembre 2020

Alle bambine è sempre piaciuto giocare alla principesse. Walt Disney ci ha consolidato la sua fortuna. Alla mia prima figlia femmina, ho acquistato tutto ciò  che era in vendita e le raffigurava.

Da piccola più volte mi sono immaginata se non principessa, almeno castellana.

Quelle mura forti, imponenti, in grado di resistere agli attacchi nemici più efferati e alle tempeste meteorologiche più spietate, cupe nelle declinazioni dei loro grigi, mi hanno attratta al punto di immaginare, quasi alla perfezione, ciò che avrei trovato una volta varcati gli alti portoni.

A Vignanello, comune dei Cimini, consecutivo alla meno popolosa Vallerano, c’è un castello dalle fattezze solide e imponenti.

Provenendo dalla vicina Sant’Eutizio, frazione di Soriano nel Cimino, si giunge al limitare del grande giardino del castello dopo aver superato una lunga strada, stretta tra due alte schiere di palazzine.

Era una mattina ancora giovane della metà di ottobre, ed eravamo partiti da Viterbo avvolti da una nebbia non troppo insistente e che metteva l’atmosfera in perfetta linea con la stagione nella quale ci troviamo, l’autunno. Negli anni passati, abbiamo vissuto degli ottobre caldi e soleggiati. Quest’anno, che l’atmosfera sociale è di per sé cupa, il tempo ha deciso di allinearsi ad essa e privarci della gioia che soltanto la luce e il bel tempo possono donarci.

Il castello si rivela dopo alcune centinaia di metri. Lo abbiamo scorto dal finestrino della nostra automobile, mentre cercavamo un posto in cui fare colazione.

C’era un po’ di movimento in Piazza della Repubblica, molte le macchine parcheggiate e un grande furgone con i portelloni aperti. Ci siamo avvicinati, incuriositi, anche se dal materiale appoggiato a terra, era abbastanza chiaro che si trattava di una troupe cinematografica.

Il castello, ancora una volta, sarà lo scenario di un film. Voci di corridoio, indicano che narrerà la storia di uno dei più grandi e maledetti artisti, vissuto a cavallo dei secoli XVI e XVII.

Naturalmente l’occasione era troppo ghiotta, e non abbiamo desistito dall’introdurci nel grande maniero.

I miei stivali marroni, ribelli al punto di calare irrimediabilmente sulle gambe con la volontà di accartocciarsi sulle caviglie, segnavano i passi su quello che assomiglia molto ad un ponte levatoio, facendolo scricchiolare. Il grande atrio del castello era rischiarato dalla luce che filtrava dalla porta direttamente contrapposta a quella da cui eravamo entrati. Di lato, un ragazzo raffinato, alto e biondo, dall’aspetto di un principe delle fiabe (lupus in fabula), ci ha chiesto, con un accento dalle tonalità vellutate, chi stessimo cercando: stavamo cercando la storia, l’ispirazione, che per la seconda volta ci avrebbero negato. Abbiamo avuto il permesso di scattare qualche foto alle armature presenti in quello spazio dal sapore antico, l’odore del cui legno ci stava salendo nelle narici.

Ci siamo spinti fino all’apertura che si rivolge sullo splendido Giardino all’Italiana e poi, per rispetto di coloro che ci avevano permesso di entrare, abbiamo scelto di uscire e continuare soltanto ad immaginare.

Come tanti dei castelli che abbiamo la fortuna di ammirare, anche quello di Vignanello, sembrerebbe sia sorto sulle fondamenta di un’antica rocca fortificata.

Pare, difatti, che nell’847, quando il piccolo borgo era parte dello Stato Pontificio, venne edificata una rocca. Sotto il pontificato di Leone IV la costruzione subì sostanziali cambiamenti, che la trasformarono in un convento abitato dai frati Benedettini. Per circa quattrocento anni, fino ad arrivare al  1531, il palazzo venne conteso dalle più importanti famiglie locali che ne rivendicavano la proprietà alla chiesa. Fu nel 1531 che Papa Clemente VII ordinò che il castello venisse donato a Beatrice Farnese Baglioni che divenne, per prima, feudataria di Vignanello.  Cinque anni più tardi, alla morte di Beatrice, papa Paolo III Farnese confermò la discendenza a Ortensia Farnese, poi sposa di Sforza Marescotti. Il feudo divenne contea, e lo stabile fu profondamente trasformato grazie agli abbellimenti realizzati su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane.

Il secolo successivo all’acquisizione da parte della famiglia Farnese, furono creati  i magnifici giardini in stile rinascimentale, all’interno dei quali si trova addirittura un labirinto, voluti da Ottavia Orsini, moglie di Marcantonio Marescotti e figlia di Vicino Orsini, che ci ha lasciato il suggestivo parco di Bomarzo.

All’alba del XVIII secolo, il castello prende il nome di Ruspoli, grazie ad un’eredità ricevuta da uno dei membri della casata Marescotti che si unì in matrimonio con  Vittoria di Orazio Ruspoli di Siena, la quale portò in dote un cospicuo patrimonio che poté essere ricevuto a condizione che fosse mantenuto il suo nome. Da antichi carteggi si evince anche l’antica famiglia Ruspoli veda le sue origini addirittura nella Bologna dell’800. Ad essa è collegato  Mario Scoto (da cui Marescotti), un militare scozzese. Le due casate, evidentemente, erano unite da comuni legami.

La famiglia  annovera anche una santa, Giacinta, al secolo Clarice, figlia di Marcantonio e Ottavia Orsini,  canonizzata da Pio VII nel 1807.

Peccato, è stata una grande mancanza non riuscire a respirare l’aria magica che traspira da quelle pareti intessute d storia.

Abbiamo cercato un bar, e ci è stato consigliato di scendere verso la ferrovia. Non conoscevamo la strada più breve, e siamo stati attratti dagli angusti vicoli che si trovano appena sulla sinistra.

Ci siamo incamminati verso di essi, con particolare attenzione e voglia di scoprire per un’altra volta ancora le peculiarità della nostra terra. Era ancora presto, e l’aria fredda e umida ha avuto il potere di calarci in un’atmosfera contadina, che non appartiene di certo a questi tempi, sebbene anch’essi bui, che stiamo vivendo.

Abbiamo dovuto più volte abbassarci per evitare di sbattere la testa contro i sottopassaggi, i nostri passi si facevano via via più veloci per la bramosia di scoprire angoli nuovi e pittoreschi. Molti gatti passeggiavano indisturbati, come fossero padroni delle antiche costruzioni in peperino. Una fontana posta in una piccola piazzetta, ricoperta da semplici e colorate sculture in ferro, rallegrava quelle vie silenziose. Poi, d’un tratto, come abbandonata, ci è comparsa la sede di un partito politico, anch’esso caduto nel dimenticatoio.

Un cane abbaiando con carattere, ci ha richiamati all’ordine. Stava giustamente difendendo il suo territorio, e non aveva alcuna intenzione di vedere estranei in quello che costituisce il suo oramai naturale ambiente.

Abbiamo continuato a perderci nei vicoli, salendo e scendendo le poche scale in pietra che separano un livello dall’altro. Ho pensato a quella stupida frase da Baci Perugina che recita quanto sia “bello perdersi per poi ritrovarsi”… un po’ di verità, queste parole la contengono. Mi capita spesso di staccarmi col pensiero da qualcosa o da qualcuno e, soltanto quando la rivedo, o lo rivedo, capisco come riesca a completarmi e a quanto non ce la farei senza.

Un passo dopo l’altro, siamo arrivati alla piazza in cui è collocata la stazione ferroviaria e, finalmente, abbiamo avuto la possibilità di placare, con tutta la dolcezza del mondo, la nostra fame.

Il Caffè La Valle, è un locale moderno, pulito e accogliente, in grado di offrire ristoro a chiunque si trovi a passare da quelle parti. Abbiamo consumato un’ottima colazione che ci ha fornito tutta l’energia necessaria per riprendere i sali scendi presenti nel comune dei Cimini.

Prima di guadagnare di nuovo la sommità del paese, ci siamo spostati verso la strada ferrata che spacca in due l’abitato. L’erba incolta, era ancora bagnata dell’umidità scesa durante la notte. Abbiamo scattato qualche foto, cercando di fermare quel momento di pace e di condivisione d’intenti per sempre.

E in quel momento, la curiosità verso la storia del paese è stata tale che siamo andati a ricercare gli eventi che l’hanno delineata.

Dagli studi condotti, sarebbero stati trovati resti di insediamenti umani risalenti al Paleolitico Superiore e al Mesolitico. Gli uomini che vi abitarono, trovarono rifugio in grotte tufacee presenti in tutto il paese.

Insediamenti successivi risalirebbero all’VIII-VII secolo a. C. e, grazie agli scavi effettuati circa un secolo fa, sono venute alla luce 16 tombe ipogee contenenti reperti di notevole interesse storico e valore. Mentre non si hanno notizie del periodo romano, si sa che durante la discesa di Alarico I, la gente che fuggiva dalle violenze seguite al sacco di Roma  si rifugiò nella Selva Cimina. Questa situazione diede vita ad un “vicus”, ovvero un concentrato di abitazioni. La comunità trovò sostentamento grazie alla selvaggina e al pesce che nuotava nei corsi d’acqua presenti, in questo periodo sembrerebbe aver avuto origine l’attuale nome, Vignanello.

Difatti, un tale di nome Giuliano era il personaggio più in vista del luogo. Da esso derivò l’appellativo Giulianello che pare si sia trasformato nell’attuale Vignanello. Altre versioni lo indicano, invece, come una conseguenza dovuta alla presenza delle tante vigne che caratterizzano il territorio.

La storia del paese passa dai primi anni del ‘600, quando  venne menzionato per denotare il dono di un uliveto a favore della Basilica Vaticana da parte del pontefice Gregorio Magno, al Sacro Romano Impero. Durante quei secoli e sino all’anno 1081  i pontefici ne fecero un possedimento benedettino.

Nel 1169 Federico Barbarossa si appropriò del borgo strappandolo alla Chiesa e accomunandolo ai possedimenti imperiali viterbesi.

Successivamente fu conteso dalla famiglie Aldobrandini, Orsini e Di Vico. Per un periodo tornò allo Stato Pontificio, per poi vedere i Farnese, nella persona di Beatrice, e poi i Ruspoli – Marescotti. Soltanto nel 1816, papa Pio VII fece sì che i principi abbandonassero Vignanello, che tornò sotto lo Stato della Chiesa fino all’anno della sua caduta, il 1870, in cui entrò a far parte del Regno d’Italia.

Addentrandoci nei vicoli, stavolta sull’altro lato rispetto al Castello, abbiamo scoperto chiese, palazzi e bellissime fontane, tra cui la Fontana Barocca, realizzata nel 1673 per volere di Vicino Sforza.

Posta di lato al castello, sebbene la sua posizione originale sembrerebbe essere stata un’altra, scopre l’ampia vallata che corre verso nord-est. E’ realizzata in blocchi di peperino, pietra tipica di queste terre: per la sua completa realizzazione sono occorsi circa diciotto anni. La fontana, chiamata dagli autoctoni “fontana ‘a rocca”, inizialmente era situata sulla piazza antistante il nobile edificio. Successivamente venne spostata nella piazzetta un tempo chiamata “della Porta Piccola”, dato che era presente una piccola porta, non più esistente, che conduceva al Borgo di San Sebastiano.

Siamo tornati sulla piazza a prendere la nostra automobile, che avevamo parcheggiato di fronte alla Chiesa di San Giovanni Decollato, costruita nel 1614. Avremmo voluto visitarla, ma era chiusa.  Non capirò mai perché le porte non vengano lasciate aperte come era uso una volta.

Abbiamo incontrato una vigilessa, molto disponibile, e ci ha accompagnati in comune. Avremmo voluto parlare con il sindaco. Con nostro grande dispiacere non siamo stati ricevuti, ma abbiamo ottenuto la promessa che ci avrebbero inviato del materiale per aiutarci nella stesura dell’articolo. Nulla di tutto ciò. Soltanto una telefonata e nient’altro. Peccato. Stiamo facendo questo lavoro da oramai un anno e mezzo, e abbiamo visto tante amministrazioni collaborare, speranzose che al comune potesse giovare in termini di pubblicità.

Per Vignanello non è andata allo stesso modo, ma noi vogliamo comunque consigliare, a coloro che ci leggeranno, una visita per ammirare  il caratteristico borgo, l’elegante castello e per bere quel buon vino di cui si celebra la qualità in un' allegra festa che si svolge la metà di agosto.

Abbiamo lasciato il paese alla volta di un  comune ad esso confinante. Qualche gocciolina di pioggia puntinava i cristalli della nostra automobile e rendeva il verde paesaggio in cui ci stavamo immergendo fatato come il bosco in cui le principesse ribelli e stanche degli obblighi di corte, vanno a rifugiarsi. Sebbene non più bambina, mi sono sentita, ancora una volta, una fanciulla dal sangue blu.

SORIANO NEL CIMINO, UN BALCONE TRA I MONTI

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SORIANO NEL CIMINO E IL POSTO PIU' VICINO AL PARADISO

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CANEPINA, UN PICCOLO BORGO E UNA GRANDE STORIA

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SAN MARTINO AL CIMINO: LA GRANDE BARCA IN MEZZO AL VERDE

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VALLERANO: UN AMORE DI STORIA E DI SAPORI

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UN BORGO DIMENTICATO: CHIA

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