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Falerii Novi e una citta' ancora da scoprire

di Daniela Proietti

Viterbo, 29 novembre  

La strada che giunge a  Falerii Novi, procede in maniera pianeggiante.

Siamo partiti da Fabrica di Roma, dove avevamo respirato un’aria che sapeva di Medioevo e di Rinascimento. Avevamo vagabondato tra le strette vie che videro le famiglie che hanno fatto la storia del nostro territorio di Tuscia lasciando edifici, fontane, strade e mura che hanno  resistito alla normale usura del tempo. Abbiamo toccato, percependone la solidità e la resistenza, i grandi massi in peperino che costituiscono il piedistallo di quel misterioso castello in cui dimorò, sebbene per pochi anni, Lucrezia Franciotti della Rovere, sposa di Marcantonio Colonna e nipote di Papa Giulio II. Ci siamo incantati nell’ammirare gli splendidi affreschi del Duomo, che raccontano la magnificenza dell’epoca nonché la necessità, da parte della Chiesa, di riaffermare i propri  principi, messi in crisi dal presbitero tedesco Martin Lutero.

La Via Falerina avanza, in maniera poco sorprendente e abbastanza rettilinea, tra coltivazioni di noccioli e uliveti, vigne e campi dissodati, illuminati da un sole che, soltanto una manciata di minuti prima, se ne stava sapientemente celato sopra alle grigie nuvole dalle forme piatte e irregolari.

Diversi gruppi di case dall’aspetto piuttosto moderno e curato, annunciavano la presenza di un centro abitato sorto a poca distanza da quella che fu un’importante cittadina romana.

Alla nostra sinistra una piccola costruzione dal classico colore aragosta, che denota da sempre case cantoniere e caselli ferroviari, ci ha ricordato che avevamo raggiunto la nostra destinazione.

Abbiamo accostato la macchina leggermente a destra, il tempo di scendere e di scattare una foto per immortalare il piccolo stabile dall’intonaco leggermente scrostato sul fianco. Al di là della stazioncina, evidenziata da un cartello recante il nome di Faleri, corre la nostra più antica linea ferroviaria, quella che noi viterbesi siamo abituati a chiamare Roma Nord.

Me lo immagino, il breve convoglio, solitamente composto da due o tre vagoni, con i fianchi decorati da un writer zelante e i sedili arrotondati dal tempo e dalle giacche impermeabili degli studenti, che in tempi di didattica in presenza li riempiono, mentre taglia in due il pianoro falerino.

Quella domenica pomeriggio non si sentiva lo stridere dell’acciaio delle ruote del treno su quello delle rotaie. C’era quiete. Calma. Tranquillità.

Sono risalita in macchina e ci siamo diretti verso quella “città nuova” di duemilatrecento anni fa con la certezza che avremmo goduto della visione di un qualcosa che, ancora una volta, non ci avrebbe lasciati indifferenti.

La via per raggiungere Falerii Novi scorre veloce nel verde. Tanto celermente da non farci accorgere di aver superato la nostra meta.

Siamo tornati indietro, incontrando la stessa donna che avevamo visto camminare assieme al proprio cane poco dopo quello che non avevamo capito fosse ciò che stavamo cercando.

Un cartello, realizzato in maniera artigianale (e divertente), mostrava il costo dell’eventuale sosta in prossimità delle rovine, rendendo geniale, anche se poco incline alle regole, il modo in cui alcune persone possano sfruttare la situazione.

Scegliendo la via economica, abbiamo parcheggiato la nostra automobile  nello spazio sterrato  accanto a  un verdissimo prato antistante l’ingresso all’antica città.

Una strada, rettilinea e sassosa, conduce a quella che abbiamo giudicato come una vera e propria meraviglia: la porta occidentale, detta Porta di Giove.

Il nome deriva dalla testa della divinità scolpita nell’arco; e questa struttura, come tutte le altre, era costituita da un vano d’ingresso coperto a volta, con arco in peperino sormontato da un’elegante cornice.

L’arco è davvero imponente, ed è singolare vedere come le alte mura anteriori siano così ben conservate. I grossi pietroni in tufo, resi umidi dalle condizioni climatiche autunnali, in alcuni punti sono sovrastati da un’importante vegetazione che potrebbe esser causa di una non troppo lenta rovina.

Camminando con calma, in modo da poter assaporare nella giusta misura la bellezza che ci stavamo preparando a conoscere, siamo arrivati di fronte ad un grande caseggiato che, con sorpresa, abbiamo capito essere abitato. A destra, un ricovero agricolo, dei cani all’interno di un recinto e una macchina, con targa estera, parcheggiata.

Voltando leggermente lo sguardo verso sinistra, abbiamo goduto della visione offerta dalla Chiesa di Santa Maria in Falleri, rimessa a nuovo dopo lavori di restauro operati nel 1972.

Per narrare la storia della chiesa, è necessario compiere un salto indietro di molti secoli, addirittura di sorvolare oltre due millenni, per arrivare alla distruzione di Falerii Veteres, l’antica Civita Castellana, uno dei centri della dodecapoli etrusca, situata a due chilometri a ovest dall’antico tracciato della Via Flaminia e a cinquanta chilometri da Roma, distrutta dai Romani nel III sec. a.C.

Secondo un’antica leggenda, tramandataci dallo storico greco Strabone, venne fondata dai coloni provenienti da Argo. Halaesus, figlio di Agamennone, re di Micene, e della schiava Briseide, fuggì dopo l’uccisione del padre, approdò sulle coste tirreniche e risalì il Tevere fino al luogo in cui avrebbe fondato la città, abitata, poi, dal popolo dei Falisci.

Romani e Falisci si scontrarono con frequenza fino a quando Falerii venne rasa al suolo dalle legioni romane e ricostruita in pianura, nel territorio che abbiamo deciso di esplorare, con il nome, appunto, di Falerii Novi.

Posta lungo la Via Amerina, che venne aperta nel 241 a.C. e che univa i centri di Vejo e Ameria (la moderna Amelia) attraversando per intero il territorio falisco e toccando i suoi principali centri, Nepet (Nepi), Falerii (Civita Castellana), Fescennium (Corchiano), Gallese, Vasanello e Hortae (Orte), aveva un impianto tipicamente romano sia nell’assetto urbanistico che in quello politico amministrativo e, sebbene si mostrasse indipendente, risultava sottoposta al diretto controllo del potere centrale.

La città e i suoi abitanti vivevano in condizioni di benessere, a giudicare dai ritrovamenti databili anche all’età imperiale. Successivamente il centro si impoverì e questa condizione portò allo spopolamento dello stesso e anche delle campagne circostanti. A cavallo tra il  IV e V secolo d. C., la città era quasi totalmente abbandonata a favore dello sviluppo dell’antico sito poco distante che, successivamente, nel medioevo, avrebbe dato vita a Civita Castellana.

Nel X secolo venne distrutta dai Normanni e alla fine del 900 fu costruita l’Abbazia di Santa Maria, fondata dai benedettini e passata poi ai cistercensi. I lavori sembrerebbero essere stati terminati verso il 1180, a testimonianza di questo la firma di Lorenzo e Jacopo Cosmati, celebri marmorari romani che, dopo qualche anno, realizzarono il pavimento del Duomo di Civita Castellana.

La comunità monastica, il cui ordine faceva riferimento ad una piena spiritualità, arrivò nel territorio falisco per  riportare stabilità religiosa a Civita Castellana.

L’enorme importanza e ricchezza acquisita grazie a concessioni, benefici e protezione apostolica, portò alla corruzione dei costumi e a conseguenti richiami da parte del Capitolo Generale di Citeaux, ma questo non ortodosso rispetto della regola non impedì a Santa Maria in Falleri di avere una propria filiazione a Roma in San Sebastiano alle Catacombe nel 1260.

Tra il 1200 e il 1300 l’ordine cistercense fu investito da una forte crisi che toccava sia gli aspetti economici che quelli spirituali tantoché, nella seconda metà del XIV secolo l’abbazia venne abbandonata e utilizzata come una semplice tenuta agricola.

Dopo diversi passaggi di proprietà, nel 1392 i suoi terreni andarono all’Ospedale di Santo Spirito in Saxia che li gestì fino al 1536 circa, mentre la chiesa e l’abbazia caddero in commenda.

Successivamente a ulteriori passaggi di proprietà, nel 1649, l’abbazia e il suo territorio risultavano patrimonio della Camera Apostolica e nel 1786 papa Pio VI li concesse in enfiteusi al Comune del vicino paese di Fabrica che ne divenne poi proprietario. Si trasformò poi residenza privata, fino ad essere definitivamente chiusa nel 1649.

Per secoli la struttura, un tempo grandiosa, è stata sottoposta ai capricci del tempo, sia meteorologico che cronologico, fino a risorgere dalle sue ceneri quasi cinquant’anni fa, nel 1972.

La chiesa, nel primo dopopranzo, era chiusa. Non abbiamo avuto la fortuna di vederla, né di ammirarne  i raggi di sole che, filtrando dall’apertura posta sul retro e formata da quattro petali in contrapposizione tra loro, danno luogo, durante il solstizio d’estate, alla magica visione di una colomba in movimento.

L’addetta all’ufficio cultura del Comune di Fabrica di Roma, la gentilissima Livia,  ci ha riferito che molti ricercatori stanno studiando il fenomeno, che attira parecchi  turisti, i quali si recano in loco all’alba per poterlo constatare.

Livia e il suo collega, rivendicano con forza l’appartenenza dell’abbazia al proprio comune, e non alla vicina Civita Castellana, ricordandoci con fierezza delle rilevazioni effettuate con  radar dall’Università di Cambridge. Grazie a queste, è stata individuata una città nascosta che al momento non può essere riportata alla luce, in quanto la chiesa è di proprietà dei Beni Culturali, mente parte del terreno e alcune costruzioni risultano essere di un privato.

Dal fronte, la chiesa è bella. Ma dal retro, incanta. L’ampio prato, folto e verdissimo, reso brillante dalla ricca composizione del terreno e dalle copiose piogge che vi si erano riversate nelle giornate precedenti alla nostra visita, costituisce l’area in cui si articolava la città romana, attraversata dal cardo (via Amerina) e dal decumano (via Cimina).

L’ampia abside del sacro edificio, affiancata da altre quattro di dimensioni minori, spiccavano nello sfondo, ricordandomi, un po’, le chiese irlandesi.

Mi sono allontanata dal muro di recinzione e mi sono spinta al centro del prato, attirata anche da voci allegre che poi ho scoperto essere di persone armate di rastrello e impegnate nella raccolta delle olive.

Mi sono avviata a passi veloci verso un luogo un poco più appartato degli altri, mi sono sdraiata a terra con i capelli che si fondevano ai lunghi fili d’erba e gli occhi puntati verso il cielo che, nel frattempo, si era fatto più azzurro. Ho alzato le braccia, con il cellulare in modalità selfie, e ho immortalato me stessa nella natura falerina. La stessa posa la interpretai, umilmente, sui prati di Central Park, animata da un impeto che si è trasformato in profondità, proprio lì, nelle campagne dell’Agro Falisco.

Abbiamo vagato per un po’ di tempo, incontrando turisti e persone impegnate in escursioni, tutti abbigliati a dovere. Mi sono sentita abbastanza ridicola nella mia minigonna in pelle, decisamente inadeguata a qualsiasi luogo che non sia dentro una città, ho rischiato più volte che la sottile trama delle mie calze perdesse la sua integrità. In quel luogo ricco di storia, la cui porta principale è dominata dalla massima divinità, Giove, ho pensato che se fossi stato un uomo dell’era antica, non avrei potuto che essere Narciso.

Ci siamo immaginati come potesse scorrere la vita lì, nella quiete della pianura, dove il vento quasi non trova ostacoli contro cui infrangersi e urlare la sua potenza.

Abbiamo percorso con gli occhi il perimetro della cinta muraria, su cui si aprivano le porte, assieme a quella da cui eravamo entrati, la Porta del Bove e la Porta Puteana, abbiamo immaginato come fosse l’anfiteatro e il teatro, il sepolcro monumentale. Siamo arrivati al limitare delle gole tufacee, laddove scorre il Rio Purgatorio, lungo le cui rive sorgono numerose tombe di tipo falisco.

Girando attorno all’enorme caseggiato, mi sono venuti in mente i monaci che, un tempo, lo abitavano. Li ho invidiati anche un po’, pensando a quanto potessero curare la propria interiorità e rendere leggeri i loro animi, lontani da ogni tentazione terrena. Forse.

I nostri passi ci hanno condotti, una volta ancora, alla Porta di Giove. Ce la siamo lasciata alle spalle, camminando sulla via sassosa, con il sole che ci scaldava i volti, soddisfatti per aver vissuto un’altra splendida esperienza.

SORIANO NEL CIMINO, UN BALCONE TRA I MONTI

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SORIANO NEL CIMINO E IL POSTO PIU' VICINO AL PARADISO

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CANEPINA, UN PICCOLO BORGO E UNA GRANDE STORIA

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SAN MARTINO AL CIMINO: LA GRANDE BARCA IN MEZZO AL VERDE

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UN BORGO DIMENTICATO: CHIA

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VIGNANELLO, IL CASTELLO E IL BORGO

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CARBOGNANO E IL LAGO DI VICO

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GLI SPLENDORI DI CAPRAROLA

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IL SILENZIO DI FABRICA DI ROMA

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