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Fabrica di Roma: un castello austero, un meraviglioso affresco e tanta storia

di Daniela Proietti

Viterbo, 21 novembre 2020

Siamo scivolati verso Fabrica di Roma uscendo da Vallerano. Immense piantagioni di noccioli abbracciano la strada, rendendo il paesaggio silenzioso e tenuamente colorato di verde. Le coltivazioni sembrano estendersi a dismisura e andare ben oltre il numero che eravamo abituati a conoscere e che ha decretato la loro eccellenza. Diversi tratti di strada non vedono abitazioni, e il soffio del vento, che si insinua tra le foglie degli alberi, rompe il silenzio che a volte viene sopraffatto dal rumore dei trattori che, in questo periodo dell’anno, trasportano quintali di olive pronte per la macina.

Superata una curva in cui la strada declina lievemente, un edificio religioso rompe, con il beige chiaro del proprio intonaco, la fitta macchia verde bosco.

Del Santuario del Santissimo Crocefisso ne avevamo sentito parlare dai cittadini valleranesi, ma durante la nostra passeggiata, per timore di essere sorpresi dall’acquazzone che poi si è abbattuto su quelle terre, non eravamo andati a cercarlo.

Le fonti storiche non sono in grado di definire con precisione la data in cui iniziò il culto alla Madonna, si sa soltanto, come è stato tramandato  oralmente alle vecchie generazioni che hanno trascorso la propria vita nel borgo sui Cimini, che Maria fosse fonte di grazia già nei tempi anteriori al 1600.

Il luogo in cui sorge la chiesa, era denominato la Valle dei Cinghiali, così come è indicato dall’epigrafe incisa in lingua latina e collocata sulla facciata della stessa.

Sembrerebbe, così come narra una leggenda, che siano stati proprio dei cinghiali a dissotterrare una tegola raffigurante la Madonna.

L’icona venne recuperata da un boscaiolo e fu poi appesa ad un ramo di quercia affinché i viandanti potessero venerarla. Si diffuse, poi, la notizia che si fossero verificati miracoli e grazie proprio nei territori circostanti l’immagine.

Così, come era uso, si sentì la necessità di innalzare una costruzione, sebbene di dimensioni limitate, affinché la comunità religiosa potesse assistere sul posto alle funzioni.

E fu all’inizio del XVII secolo che, avendo assistito all’aumentare del flusso dei pellegrini, venne deciso di edificare, su progetto di un allievo del Vignola,  una chiesa più grande. Al suo interno vi fu trasferito un grande crocifisso appartenente ai passionisti della vicina Carbognano. Questi, seppur senza successo, tentarono di riappropriarsene ma, senza alcuna spiegazione logica e concreta, il Crocifisso “tornò” nella chiesa in cui si era  scelto di collocarlo.

Tenuto conto dei tanti miracoli avvenuti, la chiesa venne eletta Santuario, il quale fu affidato ai frati passionisti, la cui dimora era rappresentata dal conventino retrostante.

Quando i frati lasciarono il convento, la chiesa rimase abbandonata per molto tempo, ma la devozione al sacro crocifisso non cessò.

 L’alto portone era serrato, e non è stato possibile ammirare né il Santissimo Crocifisso, né gli interni dell’antica chiesa.

Così, ci siamo di nuovo mossi alla volta del borgo che bacia da sud le pendici dei Monti Cimini sui quali, da oramai qualche mese, ci stiamo muovendo: Fabrica di Roma.

Il paese ha visto raddoppiare i propri abitanti nell’arco di quarant’anni e, ad oggi, conta oltre 8400 anime. Il territorio ha un’estensione piuttosto elevata e dal punto di vista paesaggistico gode di un’ottima vista sul Monte Soratte, quel magnifico triangolo che si erge per  quasi 700 metri ed è posto nel mezzo della Valle del Tevere.

Fabrica, nell’antichità, fu un satellite falisco, questo è confermato da diverse necropoli. Del periodo romano restano numerose testimonianze epigrafiche e un cippo marmoreo che reca una dedica a Cornelia, moglie dell’Imperatore Gallieno, che regnava nel III secolo d.C.

E un cippo lo abbiamo visto durante la nostra passeggiata all’interno del cuore di questo paese il cui nome sembrerebbe trarre origine dall’operosità dei cittadini (di qui lo stemma della comunità, che rappresenta un alveare di api poggiato su un palmo di mano) e dalle attività artigianali presenti nel centro. Inizialmente il borgo era indicato soltanto come Fabrica, la specifica di Roma venne aggiunta alla fine del XIX secolo.

Il nucleo, quello a cui si accede tramite la porta che si apre sulla circonvallazione,  la scorsa domenica, all’ora di pranzo, era silenziosissimo. Ci siamo mossi con celerità e passo leggero, come sempre accade quando la bramosia pervade gli animi. Il cielo grigio, in cui il sole, svogliatamente e a intervalli non frequenti, si affacciava, sembrava quasi voler interpretare la tonalità più chiara della pietra imperante: il peperino.

Non ho esitato, come sempre del resto, a immortalare  gli attimi che abbiamo trascorso tra queste vie, piazze, case e palazzi così poco distanti dal luogo in cui viviamo dalla nascita, ma che sono a noi sconosciuti, nonostante  forieri di storia e cultura.

Alcune fonti riportano la fondazione dell’abitato da parte dei profughi di Falerii Novi (sito archeologico di notevole interesse di cui ci occuperemo nella nostra prossima uscita) nel ‘700/800 d.C. . Dopo aver subito le occupazioni e le razzie perpetrate durante le invasioni barbariche, si ripopolò alla fine dell’XI secolo, quando vennero concesse, da parte di un certo Ildebrando, le sue proprietà all’Abbazia di Farfa. La cittadina fu tenuta fino al 1308 dai Prefetti di Vico, poi passò agli Orsini. Nel 1367 divenne parte del patrimonio dell’Ospedale di Santo Spirito in Saxia. 

Otto anni dopo Francesco di Vico si ribellò alla Chiesa e si impadronì di alcuni castelli appartenenti al Patrimonio di San Pietro. Nel 1377 i di Vico restituirono il tutto ma nel 1431, Giacomo di Vico, alleato ad Antonio Colonna, attaccò l’esercito papale e fu sconfitto.

Il castello di Fabrica rimase dunque amministrato dall’Ospedale di Santo Spirito fino al 1536, quando poi fu concesso a Lucrezia della Rovere vedova Colonna.

La  famiglia costruì un proprio palazzo al di fuori delle mura in cui vi dimorò Giulio II della Rovere, il papa guerriero, uno dei più celebri del Rinascimento e colui che fondò i Musei Vaticani.

Tornato due anni dopo al vecchio proprietario, fu venduto nel 1539 a Pier Luigi Farnese assieme alla tenuta di Falleri, entrando così a far parte del Ducato di Castro e Ronciglione fino al 1649, anno della sconfitta e della distruzione della città di Castro ad opera di Papa Innocenzo X.

E’ per merito del cardinale Alessandro Farnese che venne edificata la Torre di Fabrica, alta quaranta metri, i cui muri sono spessi due.

Nel 1756 il borgo venne venduto alla Famiglia Cencelli che restaurò e abbellì il paese. Circa quarant’anni dopo passò sotto il controllo della Repubblica Francese e poi sotto il dominio napoleonico. Successivamente al Congresso di Vienna, nel 1815, tornò sotto l’influenza della Chiesa e poi al Regno d’Italia, divenendo “Fabrica di Roma, Provincia di Roma, Circondario di Viterbo".

Scorrendo nella mente le immagini che erano succedute alla lettura delle pagine  storiche riguardanti il luogo, ci siamo inoltrati nei vicoli irregolari del paese, che si incrociano tra loro come fossero bastoncini dello Shangai lanciati sul tavolo da una mano distratta. Sovrapposti, in maniera scomposta, alcuni tendevano a salire, altri a declinare verso piazzette ariose e non strette tra mura. Una scalinata dai gradoni larghi e bassi, giungeva nel regno di una gatta dal manto color champagne. Mi sono avvicinata a passi lenti e vellutati, nonostante i miei boots neri non fossero d’aiuto nel mantenere quel silenzio che tanto faceva assomigliare l’intrigo di costruzioni al limbo. Il felino si è avvicinato a me, lentamente, ha accettato una lieve carezza, e dondolando sulle zampe, mi ha lasciata sola nel piccolo slargo con veduta sulle case del paese.

Ci siamo così mossi verso la rocca che domina l’abitato.

Sin dal XIII secolo, al quale risale la prima costruzione, è appartenuta a diverse famiglie. I vari proprietari ne hanno connotato l’aspetto del castello fino a renderlo come lo vediamo oggi.

La fortezza venne fatta erigere dai Prefetti di Vico  e rientra nel fenomeno dell’incastellamento che si verificò nella penisola italiana per far fronte alle invasioni che avvennero. Si pensi ai Saraceni, ai Normanni o agli Ungari.

Manfredi di Vico, nel 1308, cedette il castello al Cardinale Napoleone Orsini, per poi essere successivamente passato all’Ospedale di S. Spirito in Sassia, nel 1367, la cui rimase fino al 1536.  Alla fine del XIV secolo la rocca aveva già il volto che conosciamo: due torrioni circolari, la forma a pianta quadrata, la torre, la  suggestiva scalinata e gli appartamenti nobiliari. Col passaggio della proprietà a Lucrezia della Rovere, divenne una dimora nobiliare.

Altri proprietari segnano la storia del castello, finché non divenne parte del patrimonio Farnese, che agevolarono alcune migliorie.

Nel 1629 un tratto di mura furono abbattute, per permettere l’accesso alla fonte d’acqua che era fuori dal castello.

Nel 1666 i Ducati di Castro e Ronciglione vengono inglobati dallo Stato Pontificio. Papa Benedetto XIV, alla fine del 1800 concede  i beni di Fabrica a Stefano e Leopoldo Cencelli.  Oggi l’antico stabile appartiene alla contessa Mariani Bianchi Ninni.

La rocca poggia su solidissime rocce, che la fanno assomigliare a un  maniero delle favole, dove, all’interno, vi alloggiano personaggi torvi.

Abbiamo girato intorno al suo perimetro, alzando più volte lo sguardo verso le alte e robuste pareti. Di fronte agli occhi mi è apparsa una scala, sembrava non fosse calpestata da molto tempo. Ho salito in fretta gli ampi gradoni, mi sono appoggiata al parapetto e ho guardato  verso i tetti, sorvolando con lo sguardo le tegole, irregolari e multi cromatiche.

Stavolta non ho immaginato Giulia la bella, della quale non si hanno notizie circa il suo passaggio nella vecchia Fabrica, ma Lucrezia Gara della Rovere,  nipote di Giulio II, che sposò Marcantonio Colonna portando in dote una palazzina sulle falde del Quirinale, costruita dallo zio Giuliano della Rovere quando era ancora cardinale.

Che poi, lì, rimase davvero poco, trascorrendo la sua vita tra gli sfarzi della capitale.

Ci siamo diretti verso quei due altri “pezzi di storia” che connotano il borgo di cui oggi stiamo raccontando.

Passeggiando lungo la via, abbiamo notato le bandiere e gli stemmi che troneggiano naturalmente all’esterno dei palazzi comunali. Eravamo al di sotto di Palazzo Cencelli, uno stabile storico che, oltre alla presenza di pregiati e suggestivi affreschi, che rappresentano scene del Vecchio Testamento e che è possibile ammirare all’interno della Sala del Consiglio, può fregiarsi di un roseto risalente al ‘500 situato in un bel giardino all’italiana, cui si accede tramite un ponticello in legno che sovrasta la strada.

Il Duomo di Fabrica di Roma, ce lo siamo lasciato per ultimo. Dall’esterno ci sembrava una delle tante chiese sorte attorno alla metà del secondo millennio che, sicuramente, nascondeva qualche particolarità, ma non eravamo  affatto preparati a ciò che avremmo visto non appena varcato la pesante porta in legno che la separa dall’esterno.

Don Luigi, il parroco, ci ha narrato della Chiesa di San Silvestro, appartenente alla parrocchia di San Giovanni Battista in Laterano, anteriore al 1200, e lo testimonierebbe una bolla di Papa Alessandro III del 1177. Con molta probabilità, la chiesa più antica del borgo, era di proprietà del Monastero di Castel Sant’Elia. Fu costruita ai margini delle mura castellane ed aveva un’unica navata con volta a botte.  Originariamente, dovettero essere stati costruiti molti altari, come era uso all’epoca e a dimostrare la datazione dell’edificio religioso,   è possibile visionare delle tele dell’epoca che possono essere aperte come sportelli.

 Ma il colpo d’occhio maggiore non può che essere per l’affresco che guarda all’altare e all’intera chiesa. La tradizione li attribuisce a Taddeo Zuccari, che decorò   il Palazzo Farnese di Caprarola, per altri ad eseguirli fu Guido da Viterbo, per lo storico Cesare Verani, invece, la mano è dei fratelli Torresani.

I dipinti andarono ad ornare l’abside appena dopo il Concilio di Trento, nel momento in cui era necessario riaffermare il Paradiso e i Santi, che la Riforma Protestante aveva messo in crisi. Nella parte alta è raffigurato il Cristo nella Gloria e il Paradiso. Non c’è l’inferno, difatti non è la raffigurazione del Giudizio Universale.

San Pietro reca in mano una sola chiave, proprio perché si trova nell’alto dei cieli. In Terra ne ha due, laddove si trova gliene serve soltanto una.

Nella parte inferiore dell’affresco  vi sono tre scene separate da colonne. Su di esse sono dipinte  immagini di santi, che danno quasi l’impressione di sporgersi.

Il campanile fu eretto nel ‘600 da Maestro Darri di Canepina e fu terminato nel 1672. Gli abitanti del borgo festeggiarono l’evento con una solenne cerimonia.

Congedandoci, Don Luigi ci ha ricordato di andare a visitare la Chiesa della Pietà, a base ottagonale, una forma in genere riservata ai battisteri.

A Fabrica di Roma, per quanto è venuto fuori dalle parole del sacerdote, la fede è ancora molto sentita e i festeggiamenti per la Madonna della Vittoria e per San Matteo, in occasione dei quali si tiene la corsa dei carrettini con ruote di ferro forgiate dagli artigiani, raccolgono sempre un pubblico numeroso.

Lasciamo il borgo dormiente alla ricerca di una storia ancor più antica, percorreremo i secoli a ritroso, fino ad arrivare a circa 250 anni prima della nascita di Cristo, calpesteremo le pietre della Via Amerina e giungeremo all’antica Falerii Novi.

SORIANO NEL CIMINO, UN BALCONE TRA I MONTI

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SORIANO NEL CIMINO E IL POSTO PIU' VICINO AL PARADISO

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CANEPINA, UN PICCOLO BORGO E UNA GRANDE STORIA

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SAN MARTINO AL CIMINO: LA GRANDE BARCA IN MEZZO AL VERDE

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VALLERANO: UN AMORE DI STORIA E DI SAPORI

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UN BORGO DIMENTICATO: CHIA

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VIGNANELLO, IL CASTELLO E IL BORGO

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CARBOGNANO E IL LAGO DI VICO

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GLI SPLENDORI DI CAPRAROLA

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Commenti

23/11/2020
13:55:04
La mia infanzia a Fabrica di Roma (inviato da Emanuele Putano Bisti)
Quanti ricordi affiorano confusamente nella mia mente dopo aver letto l'articolo. Storie che io non ho mai conusciuto ma intuito. A Fabrica ho lasciato il cuore quando per permetterci di studiare ci siamo trasferiti a Viterbo. A viterbo ho vissuto un avventura indimenticabile nella scuola media Statale "Pietro Vanni" una scuola d'avanguardia. Alessio Paternesi faceva il professore di disegno e il dott. Foti ne era il preside. Un mio quadro é rimasto appeso la dentro per trent'anni. Ma Fabrica ed I fabrichesi erano ancora nella mia anima. Emanuele Bisti . (Sono su LinkedIn) ------------------------------- Grazie Emanuele per la sua testimonianza Daniela Proietti

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